Le Rotaie e il porto
Apre il collo a cobra la preghiera
scalcia sulla ruggine il mio ascolto,
orda di papaveri
sul binario morto
I franchi tiratori
noi siamo le antenne degli insetti
che afferrano dall’aria
le vibrazioni di ciò che sarà
e le trasformiamo, senza paura,
in inni alla gioia
rapsodici e popolari
La casa del ponte
In una casa di provincia
iniziai a sognare
le notti di Roma
in cui avevo dormito
e le tante in cui avrei vissuto
non c’era macchia nella prepotenza
le colate di cuoio sul bianco
frustate di cinghia senza religione
erano solo percussioni vogliose
sui muri della mia casa,
la casa del ponte.
La casa del ponte
è un parco infinito
c’è un colombario
sotto la terra del padrone
che ho scoperto senza io
e poi ne ho fatto nido
le lucertole dai tubi mi guardano
come un boia in ciabatte
che ha ucciso i loro nonni
gli assaggi ladri d’uva
e l’umore di chi la sciupa ancora,
tante notti piene d’orme:
le flotte degli amici.
Un esercito di racconti a passo svelto
che giocano di notte a nascondino
tra le more assonnate
e gli alti ricci
la mia culla è nata lì
Nell’aria, ingenuo, il male
al ritmo dei campi,
ascoltavo i narratori.
Un solo negozio
un solo sapore
pochi suoni
e gli amori, alieni in embrione
erano fontane di fantasia.
Alla fine della strada
una capanna,
ricoperta da piume metalliche,
radunava gli scugnizzi taglialegna.
Atrani
Torcialuna
scalda l’acqua,
ninna nanna ai pesci
giovani voci d’estate, presagio del sesso
filtrano le costole e spingono
una stella esplode
e sporca di luce il denso blu.
Intanto nel ventre imbiancato
prende vita una bellezza lanceolata
tra l’ancora e la luna
Capo d’Orso:
il pieno
Istanbul
L’hostess di volo ha il profilo caramellato
di una bambola da guerra asservita al mondo,
ma con gli occhi da aspide.
Ancora, dall’alto, il mio immane mosaico di luci ordinate a fondo notte.
Tutte si affrettano verso la costa,
tartarughe al mare.
Il primo morso torna a farsi assaporare.
Stavolta le balene asiatiche mi spingeranno ancora più ad est.
L’ho capito solo ora:
mia figlia è lontana.
Rebecca e il mare
Quando guardiamo il golfo
dalla finestra del Petraio
siamo come coetanei
sull’acqua
lampade di barche a tarda sera,
o vele che frustano l’alba.
Nel frattempo tu cuci le cicatrici e dai la scossa
come le vele al sale
e mentre qualcosa muore
la tua ferita rossa annega
in quella guancia bianca
di viva carne vorace
Rebecca
Quest’ospedale ha chiesto in prestito una croce
e poi ha ridato un albero
ti ricordo ancora più piccola, docile
e gracchiante
sulla pancia della madre, un pellicano con i boccoli.
Il suo occhio trasudava miele che addolciva,
dall’iride: corpo, stanza e tutti noi
e – per un attimo – anche il cinismo dei medici
è gioia vera.
La nudità ginecologica, gli umori e il sangue
ingredienti puliti
di un sacrificio necessario.
Tutti noi, i fedeli adepti, senza chiederci il perché.
Ho una gran voglia di presentarti il bello
e l’impazienza di raccontarti il mondo
le storie degli ulivi, tribù italiche.
Sarò il tuo cantastorie, il mangianastri,
la tua zattera, il tuo sistro.
Quando conobbi tua madre e i suoi occhi nocciola
li ricordavo sempre azzurri, come i tuoi.
E quando mi ridai il mio viso, sdoppiato
in quei due rubini
è un orgasmo a linea retta, senza peso
che non passa, né sfianca.
I sicari e la rosa
Il primo male, un colpo di becco
è stato il dolore necessario dell’ago.
Dopo il colpo hai chiesto perché, senza parlare.
Il modo in cui ti affidi
è un abbandono privo di sospetti
a cui il mondo si inchina,
ma non si abitua.
Noi siamo i gatti schivi,
sulle nostre spalle gravano
i sacchi pieni di ricordi
di tutti gli aghi della nostra vita.
Noi siamo i sicari
e tu, la rosa.
Dicembre
ora che è dicembre
l’alito di latte di Rebecca
ci riscalda come l’aria al suono delle cornamuse
Ercolano
Io sono il feticista dell’antico
e torno sempre a te, rovina mia
sei la mia favorita
un sapore forte e perenne
come i ritorni sopra i punti caldi
o i richiami delle malattie
soffi d’amore tra i nidi e l’asfalto.
Eri un racconto dalle luci d’oro
ora un tramonto, sacro e disossato
ed ogni volta che provo a raccontarti
sono un bambino che non sa parlare
ed è come te che vorrei morire
rossa, antica e viva
Haiku
tra gli occhi dei lari
un cinghiale al massacro
la festa dei gigli
Domus di Octavius Quartio
Tra la crosta rossa e l’ara
vola a pelo d’erba un picchio,
cresta di Re,
e solletica me
e il prato.
Un volo primitivo
Pittura etrusca
lingua forte
sussurra e tira
agli orecchi dei sordi
e dei defunti
come oggi i cartoni ai bimbi
Su una statua lignea in Val d’Orcia
Resta grezza la Madonna, lignea e popolare
una nonna e il suo ancheggiare duecentesco
semplice come un sentimento antico,
l’essenziale del tronco.
Compositore, chitarrista e storico dell’arte. Riccardo Prencipe si è laureato con Ferdinando Bologna e ha poi conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in scienze Storico-Artistiche presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Diplomato in chitarra presso il conservatorio di Napoli San Pietro a Majella, ha poi proseguito lo studio dello strumento con il maestro Aniello Desiderio.
Ha all’attivo diversi saggi e articoli di storia dell’arte, oltre ad una nutrita produzione discografica. Ha già svolto numerose conferenze sui rapporti tra arte e musica all’Università degli Studi di Firenze, all’auditorium di Capodimonte. Dal 2005 fonda e dirige l’ensemble Corde Oblique in cui riveste il ruolo di produttore, compositore, autore e chitarrista. Ha licenziato sei album distribuiti da case discografiche francesi, inglesi, portoghesi e russe ed ha all’attivo decine di concerti in Italia, Europa ed Asia, oltre a collaborazioni con artisti del calibro di Milo Manara e Franco Fontana.